Joseph Rudolf Mengele fu un medico militare nazista che nacque il 16 marzo 1911 in una località della Baviera. Soprannominato “Angelo dalla morte “dai prigionieri dei campi di concentramento, egli fu artefice di molti esperimenti crudeli e disumani con la ferma intenzione di eliminare quelle che riteneva le “razze inferiori”. Auschwitz divenne così un laboratorio ideale per la diffusione della razza ariana (capelli biondi, occhi azzurri, pelle molto chiara).
Negli anni ‘30 decise di intraprendere gli studi di medicina, genetica umana e antropologia fisica, ampiamente in sintonia con l’indole scientifica dell’epoca. È proprio in questi anni che Mengele, rimasto affascinato dalle ricerche del suo mentore Otmar von Verschuer, avviò una serie di esperimenti sui gemelli. Egli solitamente utilizzava un gemello come controllo e sottoponeva l’altro a qualsiasi cosa, dalle trasfusioni di sangue all’inseminazione forzata, alle iniezioni con malattie, amputazioni e omicidi. Quelli che morirono furono sezionati e studiati; i loro gemelli furono sottoposti allo stesso destino. Altri suoi esperimenti riguardavano: il mutamento della pigmentazione dell’iride al fine di ottenere bambini con gli occhi più azzurri (non c’è bisogno di dire che queste iniezioni causavano gravi infezioni, cecità o addirittura la morte); inoltre praticava l’inseminazione artificiale delle prigioniere che presentavano antecedenti familiari di gemelli. Dopo il parto, se la donna aveva fatto nascere un solo bambino questo veniva depositato ancora vivo nel forno e la madre era trasportata immediatamente alla camera a gas.
Per eugenetici come Mengele, la genetica era il fattore causante di caratteristiche e condizioni sociali indesiderabili come la criminalità e la povertà. Credevano, quindi, che l’allevamento selettivo potesse essere utilizzato per incoraggiare comportamenti socialmente accettabili e spazzare via le tendenze indesiderabili. Ma i vari esperimenti che avevano contribuito a creare il movimento eugenetico avrebbero portato, ironia della sorte, alla caduta dell’eugenetica stessa.
In questo ampio contesto Mengele riuscì ad esercitare liberamente e senza restrizioni i propri interessi scientifici e di ricerca, sebbene disumani e ideologicamente influenzati dalla legge tedesca, protetta dai dogmi nazisti.
Nonostante si credesse un medico ricco di principi etici e professionali, Mengele rimane uno degli uomini più sinistri della storia caratterizzato da sadismo e brutalità.
Un esempio che testimonia questa sua crudeltà avvenne durante un’epidemia di tifo che scoppiò all’interno del campo di sterminio. “L’angelo della morte” risolse rapidamente questo problema mandando nelle camere a gas circa 1600 persone tra uomini, donne e bambini. Successivamente le baracche furono disinfettate e occupate da nuovi prigionieri.
Alcuni dei bambini, ora anziani, hanno poca memoria di questi esperimenti, altri hanno ricordi che potrebbero non essere accurati al 100%. L’unica cosa di cui siamo certi è che hanno vissuto l’inferno di questi lager.
Durante gli anni del dopoguerra non espresse alcun rimorso per l’enormità dei suoi crimini, rimanendo un nazista convinto. Secondo quanto affermato dal figlio Rolf, il padre (Mengele) non aveva mai fatto del male a nessuno personalmente, non ha ordinato lo sterminio e non è da ritenere responsabile, anzi credeva che le sue azioni fossero eticamente corrette.
LA STORIA DI LIDIA
Ci sono tante testimonianze che provano le atrocità di Mengele. Tra queste possiamo ricordare la storia di Lidia Maksymowicz, una dei pochi superstiti di Auschwitz-Birkenau. 70072 è il numero che porta sul braccio sinistro il quale testimonia, fisso e immutato, l’orrore in cui è finita insieme alla madre.
Lidia non prova odio verso i suoi torturatori: “Chi prova odio soffre di più di quello che è odiato” oppure “L’odio mi avrebbe distrutta mentre non ci sono riusciti nemmeno i miei carnefici”.
Dicembre 1943.
Lidia era una bambina paffutella con gli occhi azzurri, per questo piacque subito a Mengele che la fece portare ad Auschwitz dalla Bielorussia, dove venne arrestata insieme a tutta la sua famiglia perché la madre era una partigiana e membro di un gruppo di oppositori di Hitler. Ad Auschwitz, il dottore la scelse personalmente come una delle sue cavie, la sistemò insieme ad altri bambini in una baracca e ogni tanto la faceva prelevare per sottoporla ai suoi esperimenti. Oggi, dei 13 mesi vissuti nel campo, la donna si ricorda solo alcuni episodi. Il suo racconto non è lineare. Questo è un fenomeno molto comune per chi subisce un trauma.
Durante la prigionia fu allontanata dalla madre e per evitare di essere sottoposta agli esperimenti del dottore cercava inutilmente di nascondersi nella baracca, chiudendo gli occhi nella speranza di non essere trovata. Madre e figlia si ritrovarono, grazie alla Croce Rossa, solo nel 1962.
